Museo del Castello Scaligero

Quando i Romani vennero a contatto con i primi contrafforti del Baldo, dovettero arrestare la loro avanzata e accamparsi nella piana di Costermano, pronti a respingere le scorrerie delle popolazioni Retiche della zona montagnosa circostante. Tra queste vi erano i Tulliassi della zona di Torri, che a quel tempo si chiamava Tulles: costoro, assieme ad altre genti loro consanguinee tennero a bada gli invasori per oltre un secolo.
Attorno al 15 a.C., però, sotto il comando di Druso e Tiberio, le legioni di Roma ebbero la meglio: gli stessi soldati si aprirono una strada, la “Via Benacense”, diretti a Torri, che fu fortificato e dove s’insediò una guarnigione stabile. Del periodo romano ora rimane solo la torre del Castello che guarda il lago, ma è sufficiente a darci un’idea dell’antica imponenza.
Agli inizi del sec. X a Torri troviamo Berengario I°. Costui, per far fronte alle incursioni degli Ungari, fece restaurare il Castello e innalzare le mura attorno al paese, mura che in parte sono tuttora visibili.
Una terza sistemazione il nostro maniero l’ebbe con gli Scaligeri, e precisamente con Antonio della Scala, il quale nel 1383 affidò i lavori di ristrutturazione ad un certo Bonaventura Prendilacqua, come si legge da una lapide murata sul lato ovest della torre romana.
Le nuove fortificazioni però non impedirono ai Visconti di impossessarsi del paese, che fu espugnato dopo sei giorni di assedio: ormai l’invenzione della polvere da sparo aveva reso inutili le vecchie fortificazioni a cortina.
Da allora il Castello subì un lento ma inarrestabile declino, culminato nel Settecento, quando fu abbattuta la seconda cinta muraria per far posto all’attuale “limonara”.
Quando nell’inverno del 1980 un gruppo di volonterosi fece un esame dell’interno del Castello, lo spettacolo che si presentò ai loro occhi fu desolante: macerie dappertutto, infissi cadenti e la limonara quasi in abbandono. Da qui partì l’idea di dargli una sistemata e di adibirlo ad uso pubblico. A questo scopo si è cercata e ottenuta la collaborazione dell’Amministrazione comunale e della popolazione, che ha risposto con entusiasmo all’iniziativa, mettendo a disposizione quanto poteva servire per l’allestimento delle sale.

LA ZONA DEL POZZO

Appena entrati, c’era una fossa con il bordo di mattoni, ora non più visibile perché interrata per problemi di sicurezza. È quello che resta del complesso della porta che metteva in comunicazione il Castello con il paese. L’accesso a questo si aveva anche tramite un intricato sistema di sotterranei e uno di questi corre tuttora lateralmente al pozzo e si dirige verso il porto.

La prima torre che vediamo è il Mastio, un tempo ben più alto e con la parte superiore aggettante: comunicava con il resto delle fortificazioni tramite un ponte levatoio (ora sostituito con uno fisso) e serviva per l’ultima difesa in caso di assedio. Nel suo interno vi era la “sala della morte”, tuttora visibile: i condannati erano fatti precipitare da una botola nel soffitto su diverse file di lance appuntite e taglienti. Questa sala è tuttora visibile tramite un grosso squarcio praticato nella muraglia, fatto durante la prima guerra mondiale da alcuni soldati francesi in cerca di tesori.

L’abitazione contigua alla torre era quella del custode ed ora le sue stanze sono adibite a mostre degli aspetti più significativi di Torri. Il piccolo edificio sulla sinistra era la lavanderia, vi si faceva la “lessia”: si lavavano i panni e poi si deponevano in un gran paiolo di rame, infine sopra vi gettavano acqua bollente e cenere, che filtrava attraverso un panno steso sopra la biancheria lavata.

IL FRANTOIO

La coltivazione dell’ulivo sul lago di Garda si fa risalire all’epoca romana e da allora, assieme alla pastorizia e alla pesca, è stata una delle attività economiche fondamentali.
Anche se in misura minore rispetto ad un tempo, I’olivicoltura è ancora abbastanza fiorente, favorita dal fatto che la stagione della raccolta – da ottobre a febbraio – corrisponde al periodo morto dal punto di vista turistico. Ora la qualità di ulivo più diffusa è il “casalivo”, poiché produce una maggior quantità di olive; un tempo però coltivavano soprattutto la “trepa”, con olio più grasso e nutriente, e il “leccino”, più resistente.

La raccolta s’inizia verso la fine di settembre, dopo aver falciato l’erba del prato e aver steso le reti sotto le piante per raccogliere l’oliva; questa viene bacchiata servendosi della cosiddetta “macchinetta”. Fino a non molti anni fa l’oliva si “mungeva” a mano dentro il “gremàl”, un contenitore di pelle d’asino che si portava attaccato alla cintola.

Per salire sulle piante si usavano, e si usano tuttora, le scale a pioli – gli “scariògn” o “scalign” – che arrivavano anche a 12-15 m. di altezza. Era un lavoro molto duro, sia per gli uomini che salivano sulle scale, sia per le donne e i bambini che raccoglievano le drupe a terra.

Ora l’oliva viene portata nei tre frantoi del Comune, dove sono in funzione macchinari moderni, ma un tempo, fino agli inizi del Novecento, la macinavano nei “torcoj” disseminati su tutto territorio di Torri (nel 1904 erano una decina): la schiacciavano con la macina di granito, fatta girare su una base, sempre di granito, servendosi di un asino; la polpa poi veniva messa in sacchi appositi collocati sotto le due travi che venivano avvitate verso il basso tramite una vite di legno, inserita nella “pressa”, schiacciando così i sacchi pieni di polpa; infine, l’olio che ne fuoriusciva veniva raccolto nel “seciàr” e quindi nella “pila”.

LA “BARCHESSA”

Ogni anno, la sera del 15 agosto un numero insolitamente alto di barche da pesca esce dai porti del basso e medio lago per calare delle reti vaganti, i “volandign”, per la pesca dei carpioni e dei lavarelli. Queste reti sono lunghe circa 50 m. ciascuna e vengono attaccate l’una all’altra fino a formare delle lunghe “file” di oltre un chilometro.
Le reti vengono recuperate al mattino presto, dopo esser state individuate per mezzo di una lanterna a petrolio issata su un supporto di legno, la “cavra”, alla quale si fissa la rete.

Un altro tipo di pesca tipico della zona si effettuava con la “birba”, una rete a sacca, lunga anche 200 m.: Con questa occorrevano due barche e si circondavano i banchi di pesce, specialmente lucci, tinche, cavedani, barbi e pesci persici. Quando un pescatore raggiungeva l’età della pensione non abbandonava definitivamente il lavoro, ma lo praticava in maniera diversa: si procurava una cassetta di legno e dentro vi avvolgeva un lungo filo di bava (il “peschet”) o una catena di ottone (la “dindàna”), intervallati da tratti di bava con l’esca finta; quindi, salito su una barchetta, passava lunghe ore trascinando queste pesche, che potevano anche essere formate da un filo di rame avvolto attorno ad un rullo (il “matròs”) oppure comporsi di più pesche unite (il “tram”).
Pescavano soprattutto carpioni e cavedani e attualmente sono molti gli ex pescatori o semplici appassionati che dedicano parte del/oro tempo libero a quest’occupazione.

LA LIMONARA

Secondo la tradizione gli agrumi vennero introdotti sul lago di Garda dai frati di s. Francesco nel XIV sec. Questo tipo di coltura era particolarmente diffuso sull’alta costa occidentale, mentre sulla sponda veronese era limitato a s. Vigilio e a Torri.

I proprietari delle serre di solito erano della città, poiché la loro costruzione comportava ingenti spese, mentre i “giardinieri” più rinomati erano quelli bresciani. Tale coltivazione ebbe un impulso fortissimo nel Settecento, probabilmente per le migliorate condizioni climatiche: la serra del castello di Torri, infatti, venne eretta nel 1760, dopo che fu abbattuta la seconda cinta muraria del Castello e interrato il fossato.

È una delle ultime ancora in funzione sulla sponda occidentale e ospita limoni, aranci (i cosiddetti “portegli”), mandarini, cedri e bergamotti. Un tempo questi agrumi erano in gran parte venduti ai commercianti del Tirolo: il declino s’iniziò quando i mezzi di trasporto veloci dirottarono i compratori verso il sud dell’Italia.
Verso la fine di novembre le serre vengono chiuse con assi – per permettere una certa aerazione – e con finestre a vetri – per la luce; la riapertura si ha in primavera. Quando la temperatura dell’interno scende sotto zero, si accendono dei fuochi per intiepidire I’aria; un tempo come termometro venivano usate delle scodelle di terracotta con un po’ d’acqua dentro; quando questa gelava era ora di accendere il fuoco.

LA SALA DELLA PIETRA

L’estrazione del marmo di Torri, nelle varietà rosso giallo e mandorlato, è attestata già nel XV secolo, ma sembra che si possa far risalire all’epoca romana. Quest’attività ha costituito, fino agli anni ’60, una valvola di sfogo per la manodopera eccedente, occupata – oltre che nelle cave – anche nelle due fabbriche di granulati sorte alla fine dell’Ottocento. Il marmo veniva tagliato in grossi blocchi, i “quàr”, oppure sminuzzato in granulati e poi caricato sui barconi che lo trasportavano al porto di Desenzano: di qui prendeva numerose strade e non poco era quello che raggiungeva l’America, dove veniva impiegato per lo più nei pavimenti “alla veneziana”.

Già i Romani lavoravano la pietra, usando pure i grossi massi erratici di granito trasportati dai ghiacciai per costruire elementi di frantoio: uno di questi, in granito blu, lo possiamo ammirare all’ingresso della barchessa.

Le nostre zone erano povere di argille e questo non ha favorito lo sviluppo della ceramica, ma la pietra ha compensato largamente questo svantaggio. Tutti i recipienti, o quasi, vennero fatti con la pietra locale: abbiamo quindi le grosse “tine” per contenere l’olio, i “pilecc” per il pesce e altri alimenti (questi avevano pure un coperchio di metallo), le “pile” per ottenere la farina; per non parlare di elementi architettonici come architravi, soglie, gradini, secchiai, pilastri per “limonare”…

LA SALA DELLE INCISIONI RUPESTRI

Le “incisioni rupestri” del lago di Garda furono segnalate per la prima volta a S. Vigilio nel 1964 dal prof. Mario Pasotti. Da allora ne furono scoperte un po’ dappertutto, da Garda a Malcesine, ma la zona dove sono stati rinvenuti i graffiti più interessanti, oltre che in maggior copia, è quella di Torri. Fino ad ora sono state catalogate più di 250 rocce incise e almeno 3.000 raffigurazioni.

Tale complesso di arte rupestre preistorica, che per importanza viene collocato subito dopo quelli della Valcamonica e del Monte Sego, è unico nel Veneto e particolarmente interessante per il tipo di raffigurazioni incise sui liscioni, o “Iaste”, modellati dal ghiacciaio quaternario che occupava il bacino del Garda.

Le raffigurazioni sono in genere di grandi dimensioni ed eseguite quasi esclusivamente con la tecnica della martellinatura: esse rappresentano – in forma stilizzata – figure umane, cavalieri, animali, imbarcazioni, croci, coppelle isolate o rappresentate anche geometricamente, cerchi (i cosiddetti “simboli solari”), figure geometriche varie, fra le quali il gioco del “mirlér”.

Si hanno pure delle rocce istoriate in forma monumentale, con armi e uomini armati, cioè gli elementi più preziosi per dare loro una data. Una di queste rocce è quella delle “Griselle”, vicino a Brancolino, raffigurante daghe, spade di varie forme, una lama triangolare e guerrieri armati che si possono far risalire all’età del bronzo (II millennio avanti Cristo). Fra le rocce più interessanti va segnalata la “Pietra grande” di Crer con raffigurazioni attribuite a varie epoche, dalla preistoria ai nostri giorni.

Per quanto riguarda l’origine di quest’arte dobbiamo tener presente che il nostro territorio era scosceso e impervio e non favoriva insediamenti di tipo agricolo. Le attività prevalenti erano quelle della caccia e della pastorizia, oltre che della pesca: quindi facilmente gli autori di queste incisioni sono stati cacciatori e pastori che transitavano per queste zone; inoltre tali incisioni si trovano lungo quei sentieri che da tempo immemorabile collegano i paesi rivieraschi con i pascoli del Baldo.

LA SALA DI BERENGARIO I°

Nel luglio del 904 si trovava a Torri un ospite d’eccezione, Berengario I, re d’Italia, che era fuggito da Verona all’arrivo del suo acerrimo nemico Ludovico III di Borgogna. Sconfitto costui, si doveva ricompensare chi lo aveva aiutato nella lotta e a questo provvide lo stesso Berengario con donazioni di terre e di privilegi: a testimonianza di ciò rimangono sei diplomi, datati a Torri e ora conservati all’Archivio di Stato di Verona.

Su ordine di Berengario, oltre al Castello di Pai – poi abbattuto dal Barbarossa – vennero erette le mura di Torri, di cui rimangono cospicui resti: agli inizi del sec. X, infatti, una popolazione mongola, gli Ungari, stavano seminando il terrore nella Pianura Padana, spingendo così le città e i villaggi a restaurare le proprie fortificazioni.

Berengario I ha lasciato un ricordo di sé anche nella torre che ammiriamo nella piazza della Chiesa: era una delle quattro torri d’angolo della cittadella fortificata che corrisponde all’attuale “Trincerò”. Il plastico ospitato in questa sala – ricostruito sulla scorta delle indicazioni offerte da un affresco del 1660 e dal Catasto austriaco del 1840 – ci mostra com’era Torri agli inizi dell’Ottocento: è possibile notare le caratteristiche militari del centro, tutto circondato dalle mura di Berengario e costellato di case-fortezza, mentre nella campagna circostante si stagliano inconfondibili le serre di agrumi.

Le carte topografiche appese alle pareti risalgono alla fine del 1700 e furono commissionate dall’Ospedale Maggiore di Brescia che nel territorio di Torri vantava molti diritti e perciò voleva avere le idee chiare sui vari lotti di terra e sull’uso cui erano adibiti.

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